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La sopravvivenza al tumore al polmone aumenta con l'immunoterapia

Oncologia Redazione DottNet | 18/04/2018 15:06

Studio Usa, introdurla immediatamente insieme alla chemioterapia

Se ci si ammala di tumore al polmone, le probabilità di sopravvivenza aumentano se, insieme alla terapia, viene data anche l'immunoterapia, cioè dei farmaci che attivano il sistema immunitario. Lo ha verificato uno studio della New York University pubblicato sul New England Journal of medicine. I risultati, ottenuti con il più comune tipo di cancro al polmone, possono cambiare, secondo i ricercatori, il modo in cui i medici tratteranno questo tumore.

"La chemioterapia da sola non è più la cura standard, ma bisogna iniziare l'immunoterapia il prima possibile", commenta Leena Gandhi, coordinatrice del gruppo. Finora sono stati approvati alcuni farmaci immunoterapici, che scatenano il sistema immunitario del malato per uccidere le cellule maligne, ma sono molto costosi, possono causare gravi effetti collaterali e di solito sono utili per meno dela metà dei pazienti. Quando funzionano però, la loro efficacia dura più a lungo nel tempo. "La chemioterapia ha delle limitazioni, mentre l'immunoterapia più curare. Abbiamo dei pazienti vivi da più di 8 anni grazie ai farmaci immunoterapici", continua Gandhi.

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Nello studio sono stati seguiti 616 malati di 16 diversi paesi, con tumore al polmone in fase avanzata. Alcuni hanno ricevuto chemioterapia e immunoterapia, mentre altri chemioterapia con un placebo. Dopo 10,5 mesi, si è visto che quelli trattati con la sola chemio avevano una sopravvivenza massima di 11,3 mesi, mentre gli altri che avevano ricevuto anche l'immunoterapia vivevano più a lungo e la loro probabilità di morire si era dimezzata. La sopravvivenza stimata a 1 anno era possibile per il 70% dei pazienti che avevano avuto l'immunoterapia, contro il 50% di quelli trattati solo con la chemio. "I dati sono impressionanti, stiamo facendo progressi - aggiunge Roy Herbst, uno dei ricercatori - anche se a beneficiarne possono essere per ora solo il 30-40% dei pazienti. C'è molto da migliorare ancora".

Fonte: New England Journal of medicine

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